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Partecipazione e ambiente: la convenzione di Aarhus

di - 11 Giugno 2010
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4. In questo quadro, che non può essere ulteriormente approfondito in questa sede, occorre accennare ad un’ultima questione fondamentale: chi controlla e chi garantisce l’effettività della Convenzione?
Sappiamo che è stata recepita nel nostro ordinamento, ha valore di legge e che i giudici sono chiamati ad applicarla. Ma se digitiamo la parola Aarhus, parola che non consente ovviamente equivoci, sulle banche dati della giurisprudenza italiana, risultano circa cinque sentenze del Consiglio di Stato e dieci dei TAR. Nessuna della Corte costituzionale.
Peraltro anche nelle nostre rare sentenze che fanno riferimento alla Convenzione rinveniamo una certa resistenza alla sua applicazione e comunque una lettura debole delle sue previsioni, interpretate in senso restrittivo, come accade per le ragioni della semplificazione nell’ambito della legalità relativa alle opere pubbliche cd. “emergenziali”, che vengono fatte prevalere sulle istanze partecipative, ovvero addirittura sottoposte alla regola dell’art. 21 octies ritenendo che “per potersi censurare l’omessa comunicazione di avvio del procedimento il soggetto che si ritenga non essere stato avvisato personalmente deve comunque provare che ove avesse potuto tempestivamente partecipare al procedimento avrebbe potuto presentare osservazioni ed opposizioni connotate dalla ragionevole possibilità di avere un’incidenza causale nel provvedimento terminale” (Cons. St. n. 1197/2010).
Di certo non possono poi ritenersi in linea con gli standard della Convenzione decisioni che legittimano la palese violazione delle regole di partecipazione, come in un recente caso deciso dal Tar Puglia che ha ritenuto legittimo il diniego all’accesso con riguardo ad un’intesa tra ente locale e gestore volta a regolare le modalità del servizio di raccolta dei rifiuti ritenendo apoditticamente che tali attività fossero prive di impatto ambientale (Tar Puglia, Lecce, I, n. 2286/2009).
Se però ci spostiamo in altri ordinamenti superiori il quadro diventa più interessante. Così la Corte di Giustizia delle Comunità Europee si richiama alla Convenzione non solo per garantire l’attuazione delle direttive comunitarie che l’hanno recepita ma anche per offrirne una corretta interpretazione: ove la direttiva non sia chiara la Corte di Giustizia si riporta direttamente alla Convenzione di Aarhus. In una recente pronuncia, secondo questa linea interpretativa, pur nel silenzio della disciplina comunitaria, la Corte ha ritenuto che le norme di sbarramento previste nell’ordinamento svedese nei confronti delle associazioni ambientaliste con meno di duemila iscritti fossero contrarie alle direttive comunitarie come interpretate in senso conforme alla Convenzione (CGCE 15 ottobre 2009 n. 263).
Sempre in ambito sopranazionale l’effettività delle pretese partecipative in ambito ambientale vieno oggi assicurata anche attraverso la loro trasformazione in diritti dell’uomo suscettibili di essere fatti valere innanzi all’omonima Corte Europea. La chiave formale per far entrare queste pretese nell’ambito di applicazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo è l’articolo 8, secondo cui ogni persona ha il diritto al rispetto della propria vita privata, familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza, e, aggiunge il secondo comma, nei quali ambiti non può esservi ingerenza dell’autorità pubblica. La CEDU ha ritenuto e ha chiamato in causa la Convenzione di Aarhus come norma interposta rispetto alla violazione dell’articolo 8: tale violazione è stata ad esempio rinvenuta nella mancata previsione di procedimenti di VIA da parte di alcuni Stati o nel mancato svolgimento di attività di preventiva informazione rispetto ad attività implicanti rischi ambientali. Così nel 2009 la Corte ha chiamato in causa proprio la Convenzione in merito alle immissioni di cianuro confluite nel Danubio nel noto disastro del 2000 (Sentenza Tatar contro Romania del 27.1.2009). In questa circostanza la Corte ha ritenuto che la Romania avesse violato l’articolo 8 della Carta perché erano stati violati gli obblighi di informazione preventiva rispetto allo stabilimento dal quale si era generato l’incidente.
Sempre a livello sopranazionale un ulteriore strumento di garanzia dell’effettività della Convenzione si riporta all’istituzionalizzazione della Convenzione, tramite la creazione, da parte della Convenzione stessa, di propri organi lato sensu di controllo e di una innovativa review of compliance aperta alle istanze di ogni privato: il cd. Compliance Committee un organo indirettamente nominato dai sottoscrittori della Convenzione, chiamato a valutare le infrazioni rispetto alla Convenzione medesima. La considerazione di tale livello è fondamentale per capire il grado di innovatività e di effettività della Convenzione, nonostante i dubbi circa la sua natura e portata giuridica; recentemente, ad es., attraverso il ricorso al Committee è stata sanzionata la violazione delle norme convenzionali da parte del Kazakhstan in un caso di estremo interesse in quanto relativo a procedimenti legislativi: una società partecipata da soggetti pubblici aveva effettuato una proposta per l’adozione di un atto legislativo che consentiva l’importazione e lo smaltimento di rifiuti stranieri sul territorio nazionale; un’associazione aveva tentato di accedere allo studio di fattibilità di questa proposta e le era stato negato l’accesso. Esperiti vanamente i rimedi nazionali il Commette, sollecitato dall’associazione, ha affermato il dovere di garantire l’accesso alle informazioni ambientali (per questa interessante vicenda v. M. Macchia, in Riv. trim. dir. pubbl., 2006, 639).
Nonostante le resistenze nazionali il modello innovativamente delineato dalla Convenzione di Aarhus sembra dunque destinato a trovare una sua dimensione di effettività. Di questa trasformazione dovrà pertanto cominciare a prendere atto il nostro Stato, nella sua dimensione di amministratore e di legislatore, ed il nostro giudice, amministrativo e costituzionale, ciò che costituisce presupposto indefettibile perché il nostro ordinamento possa riallinearsi con gli standard democratici che, di là di ogni altra considerazione, la nostra appartenenza al circuito europeo e globale ci impone.

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