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L’economia, oggi: cos’è, cosa dice*

di - 8 Luglio 2024
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La scienza economica attuale è recente. Coincide con l’avvento del capitalismo. Il capitalismo si è affermato al mondo negli ultimi due secoli. Prima, nei millenni, si erano succeduti altri sistemi: caccia-raccolta, consuetudine e comando, schiavitù, feudalesimo, economia mercantile. Ciascuno di essi richiedeva una analisi specifica, diversa da quella relativa al capitalismo.

Il capitalismo è imperniato sul profitto perseguito dai capitalisti privati attraverso le imprese in cui investono i loro capitali. Le imprese pagano un salario ai lavoratori. Questi non sono più né obbligati come nell’Antico Oriente, né schiavi come in Grecia e a Roma, né servi della gleba come nel feudalesimo medievale. Sono liberi, ma per vivere devono vendere il loro lavoro. Le imprese lo comprano se prevedono che il ricavo superi il costo. Altrimenti i lavoratori restano disoccupati.

La scienza economica moderna ha spiegato il miracolo di un sistema capitalistico funzionante senza che gli investimenti, la produzione, la distribuzione, i consumi siano coordinati o imposti dal centro. Il coordinamento delle scelte individuali di milioni di individui è spontaneo, affidato alla “mano invisibile” del mercato, ai  prezzi che la domanda e l’offerta esprimono sui mercati dei singoli beni e servizi.

Vi sono stati precedenti. Nel Settecento in Francia si affermarono François Quesnay – medico della Pompadour, prediletta da Luigi XV – e altri intellettuali detti come lui “fisiocratici” perchè convinti che l’origine della ricchezza fosse nella natura, nella terra.  Gli illuministi italiani del Settecento (Galiani e Genovesi a Napoli, Beccaria e Verri a Milano) andarono oltre. Ma l’economia moderna è soprattutto inglese. Si situa nel cinquantennio a cavallo del 1800 che vide, insieme, l’emergere del capitalismo con la Rivoluzione Industriale d’Inghilterra e la riflessione aperta nel 1776 dal capolavoro dello scozzese Adam Smith (1723-1790), dal titolo ambizioso: “Un’indagine sulla natura e sulle cause della ricchezza delle nazioni”.

La facile battuta, quindi, è che “in economia tutto cominciò con Adamo (Smith)”, come la Creazione divina dell’uomo. Seguirono gli altri grandi classici inglesi, fra cui spiccano Robert Malthus (1766-1834), David Ricardo (1772-1823), Henry Thornton (1760-1815). Con Smith furono i primi a teorizzare il capitalismo industriale e finanziario nascente, che si è poi esteso persino alle economie ex socialiste come la Cina e la Russia, dove l’uso delle risorse veniva con grande difficoltà pianificato dall’alto.

Oltre all’idea della “mano invisibile” i classici attribuirono il valore di base delle cose, che si riflette nei prezzi di mercato, alla quantità del lavoro occorrente a produrre quelle stesse cose. Il libro di Smith comincia con queste parole: “Il lavoro è la fonte da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e utili della vita”. Tendenzialmente, là dove occorre più lavoro il prezzo è alto, là dove occorre meno lavoro il prezzo è basso.

Altra idea di fondo dei classici riguardava la funzione del profitto. Il profitto consente ai capitalisti che lo percepiscono di investire in capitale fisso (strumenti, macchine, edifici, infrastrutture). Il capitale fisso accresce la ricchezza delle nazioni, essendo più produttivo e più a lungo del capitale circolante, da rivendere a breve (materie prime grezze, manufatti, scorte).

Ulteriore idea dei classici fu che profitto e salario, capitalisti e lavoratori, sono in conflitto d’interessi: se più prodotto va al salario, meno va al profitto. Il conflitto venne poi elevato a lotta di classe dall’ultimo dei classici, Karl Marx (1818-1883). Marx si augurava e prevedeva la fine del capitalismo, che non c’è stata.

L’aspetto conflittuale venne rimosso dagli economisti detti neo-classici. Nello scorcio dell’Ottocento essi ricondussero il valore delle merci, non alla dose del lavoro incorporato per produrle, come proponevano i classici, ma alla rarità e alla utilità dei singoli beni e servizi scambiati sul mercato, misurate dai prezzi. Se un bene diventa scarso, più utile o più gradito l’aumento del suo prezzo giustifica che se ne produca una quantità maggiore, con l’offerta accresciuta per soddisfare la domanda. Analogamente, se la produttività dei servizi offerti dai lavoratori scende, il mercato riduce la richiesta di lavoro e con essa riduce il salario a favore del capitale, che ottiene un maggiore profitto.

I massimi economisti neo-classici – il francese Leon Walras (1834-1910) e sulla sua scia l’italiano Vilfredo Pareto (1848-1923) – hanno per via matematica argomentato che il mercato ha la straordinaria capacità di rendere compatibili fra loro le diverse scelte individuali di milioni di consumatori e produttori. Il sistema è armonico. Ciascuno ottiene i beni che preferisce per consumare o di cui necessita per produrre. Soprattutto, non vi è conflitto di classe, perché ciascuno ottiene quanto gli spetta in base al suo contributo alla produzione. Inoltre il sistema tende a un equilibrio ottimale, efficiente: quando l’economia vi perviene, nessuno può ulteriormente avvantaggiarsi se non a scapito di qualcun altro.

Di fatto, al di là delle diverse teorie, questo sistema ha cambiato il mondo, economicamente in meglio. Nei millenni prima del capitalismo il reddito medio pro capite dell’umanità era aumentato molto poco. Nel 1820, per un miliardo di abitanti della Terra non arrivava in media a 700 dollari l’anno (erano 500, duemila anni prima): due dollari al giorno, nemmeno un panino di McDonald’s. Pochi ricchi fondavano sul potere politico, religioso, militare i loro enormi patrimoni. La massa era povera. Oggi per otto miliardi di esseri umani il reddito medio pro capite sfiora i 10mila dollari l’anno, con un aumento di 16 volte. Nell’Italia unita, dal 1861, il reddito medio pro capite è aumentato di 13 volte, nello stesso Mezzogiorno di 11 volte. Nel mondo, l’analfabetismo è stato quasi ovunque debellato e la speranza di vita è stata in salita dai 35 anni di due secoli fa verso gli 80 anni e oltre.

Questo formidabile progresso materiale è dovuto all’investimento in capitale fisso, ma ancor più alle innovazioni e quindi alla produttività: le innovazioni consentono di realizzare un prodotto maggiore con meno risorse. Il meccanismo è stato teorizzato dall’economista austriaco Joseph Schumpeter (1883-1950). Fra i capitalisti alcuni concepiscono innovazioni. Devono investire, per applicarle alla produzione. Se non dispongono di mezzi propri sufficienti, chiedono denaro all’esterno. Le banche – e le Borse – scelgono le imprese di cui si fidano, le finanziano e riducono i fondi prestati alle attività che diventano meno produttive. Schumpeter vedeva come una “distruzione creatrice” la redistribuzione di risorse dagli inefficienti agli efficienti e lo slancio produttivo che ne deriva.

Tutto bene, dunque? Assolutamente no.

Accanto al pregio inestimabile della aumentata produzione il capitalismo si è storicamente dimostrato instabile, iniquo, inquinante. Le prime due negatività furono denunciate con forza negli anni Trenta da John Maynard Keynes (1883-1946). Allora, la terza questione, quella del riscaldamento climatico, non si era ancora imposta all’attenzione generale. Keynes – un genio, un misto di Cartesio per il rigore e di Freud per la visione delle umane motivazioni – fu critico dell’analisi economica neoclassica. Ancorchè scossa dalle critiche di Keynes e da quelle successive di Piero Sraffa (1898-1983) questa resta prevalente nel mondo e attribuisce al mercato la capacità, se non di sconfiggere, di limitare al massimo l’instabilità e l’iniquità distributiva.

Ma questo limitare al massimo non è stato, nei fatti, sufficiente. Nell’economia mondiale si sono dovuti sperimentare gravissimi episodi di instabilità: inflazione e deflazione dei prezzi, crisi a catena di imprese, banche e borse, una disoccupazione che nei primi anni Trenta, in specie negli Stati Uniti e in Germania, gettò sul lastrico milioni di persone private del posto di lavoro.

Inoltre già alla vigilia della prima grande guerra in Europa e negli Stati Uniti l’1% più ricco accentrava circa la metà del patrimonio nazionale. Ancora oggi, solo perché nata in Norvegia o in Svizzera una persona può percepire un reddito che supera di oltre 100 volte quello di chi vive in Africa, che pure si è moltiplicato per quattro dal 1820. Nel mondo vi sono pur sempre 800 milioni di esseri umani – ben sei milioni in Italia – in condizione di povertà assoluta, sull’orlo della malnutrizione e della malattia. Gli emigrati superano i trecento milioni.

Infine, nell’ultimo mezzo secolo, grazie anche allo studio pionieristico del 1972 sui Limiti dello sviluppo promosso dall’imprenditore Aurelio Peccei (1908-1984), si è constatato che il ricorso ai combustibili fossili (carbone, petrolio, gas) crea anidride carbonica, gas serra e innalza il riscaldamento della Terra verso livelli insostenibili che minacciano animali e uomini. Le imprese che impiegano quelle fonti d’energia nella produzione ne abusano perché non includono nel calcolo dei costi e dei profitti i danni provocati all’esterno: le “esternalità negative” inflitte a chi vive nell’ambiente circostante. Se una fabbrica inquina il lago e provoca morìa di pesci, i pescatori vengono danneggiati e nessuno li risarcisce, a meno che non ci sia una norma, o un contratto, che lo impone.

Per i suoi limiti, empirici ma anche logici, la impostazione neo classica è stata sottoposta a critiche teoriche da parte di una minoranza di economisti, oltre che da Keynes e da Sraffa.  Luigi Pasinetti (1930-2023) e Pierangelo Garegnani (1930-2011) hanno addirittura prospettato il ritorno agli antichi classici.

Quindi non esiste una sola, indiscussa, scienza economica, ma punti di vista diversi aperti alla critica e alle nuove conoscenze analitiche.

Tuttavia disponiamo di un insieme di proposte e di strumenti per il governo del sistema economico capaci di fare fronte ai tre difetti del capitalismo – l’instabilità, l’iniquità, l’inquinamento – salvaguardandone il pregio: la capacità di moltiplicare produzione e redditi.

Compete allo Stato assicurare alle imprese in contesto e le infrastrutture, fisiche e immateriali, più favorevoli alla crescita. La manovra del bilancio pubblico e la regolazione della moneta da parte delle banche centrali possono prevenire e reprimere l’instabilità. Se c’è inflazione si può ridurre la spesa pubblica, aumentare le imposte, contenere la quantità di moneta. L’aumento dei prezzi si calmerà, perché tanto la domanda complessiva di beni e servizi quanto le aspettative inflazionistiche scemano. Se all’opposto c’è disoccupazione, questa può essere riassorbita sostenendo la domanda globale attraverso investimenti pubblici, minori imposte, creazione di moneta. Più tasse sui ricchi e la migliore istruzione gratuita per i meno abbienti meritevoli renderebbero meno sperequata la distribuzione degli averi. Ai sussidi pubblici spetta di sradicare la vergogna sociale della povertà estrema che coesiste con l’abbondanza altrui. Il riscaldamento climatico va evitato con divieti, obblighi, tassazione, incentivi e disincentivi. Nelle produzioni e nei consumi l’energia fossile può essere sostituita da energia “verde” (solare, eolica, nucleare). La tecnologia moderna lo consente.

L’intensificarsi dei movimenti internazionali di merci, persone, capitali ha reso le economie dei singoli paesi strettamente integrate fra loro. Gli emigrati già superano i 300 milioni. Quindi le politiche contro l’instabilità, l’iniquità, l’inquinamento devono essere coordinate fra paesi. Se Cina, India e Africa (quattro miliardi di persone, metà del genere umano) continuassero a inquinare non basterebbe che gli Stati Uniti e l’Europa smettessero di farlo (cosa che non sta accadendo).

I conflitti in corso in Ucraina, nel Medio Oriente e altrove, le tensioni dell’Occidente con la Russia, l’Iran, la Cina stanno invece frantumando le relazioni economiche internazionali. Il protezionismo con cui gli USA e l’Europa rispondono alla concorrenza cinese costituisce il più serio ostacolo al progresso economico di tutti e alle soluzioni condivise che la scienza economica offre.

Lo storico Thomas Carlyle a metà Ottocento affermò che l’economia è una “scienza triste” perché si occupa dei mali del mondo. Non lo è affatto. Può dare rimedio a quei mali. Triste è l’incapacità dei governanti di opporre la pace alla guerra e di cogliere le opportunità d’azione che la scienza economica pone a loro disposizione.

Pierluigi Ciocca, Accademia dei Lincei

*Traccia di una introduzione all’economia per gli studenti delle scuole superiori.

Una bibliografia, per cominciare:

  • Napoleoni, Elementi di economia politica, La Nuova Italia, Firenze, 1980, 3a edizione
  • Lunghini, Conflitto, crisi incertezza. La teoria economica dominante e le teorie alternative, Bollati Boringhieri, Torino, 2012
  • M. Keynes, Prospettive economiche per i nostri nipoti, (1930), in Id., La fine del laissez-faire e altri scritti, Bollati Boringhieri, Torino, 1991
  • Madddison, L’economia mondiale dall’anno 1 al 2030, Pantarei, Milano, 2008
  • Ciocca, Che fare, dunque? L’economia, in “Italianieuropei”, 2024.

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