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La guerra in Ucraina e il teatro esterno

di - 10 Giugno 2024
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CIRCOLO DI STUDI DIPLOMATICI                                                                LETTERA DIPLOMATICA

Piazzale della Farnesina, 1                                                                                         n. 1372 – Anno MMXXIV

00135 Roma                                                                                                                Roma, 22 aprile 2024

 

La guerra in Ucraina e il teatro esterno

Il ritardo nell’invio di armi promesso dagli USA a Kiev, per la lunga opposizione del Congresso, ha compromesso seriamente le possibilità di difesa dell’Ucraina, già ridotte dalla penuria di risorse umane, e comunque inferiori a quelle a disposizione del suo aggressore. Putin, invece non impedito nel reclutamento di giovani delle repubbliche asiatiche federate, è anche immune da resistenze interne per mancanza di opposizione alla prosecuzione della guerra.

Certo non tutti gli osservatori avevano creduto in una resistenza così lunga da parte di un Paese tanto più modesto sia come potenza che come popolazione, ma l’impegno a difendere la propria libertà – accompagnato da un coraggio che ha rasentato spesso la temerarietà – e il sostegno della NATO, hanno permesso che il conflitto si protraesse più del previsto. Tuttavia appare ora inevitabile – se non ci saranno importanti accadimenti dell’ultimo momento – l’avvicinarsi della resistenza ucraina, alle ultime battute.

L’indignazione occidentale per il vile attacco all’Ucraina, contro tutte le regole del diritto internazionale, ha sconvolto l’Occidente, inizialmente sconcertato dalla spregiudicatezza dell’invasione. Con il tempo, lo sdegno si sta stemperando, oscurato anche dalle complesse sensibilità verso la guerra scoppiata a Gaza. Di fronte all’esaurimento delle risorse e alla constatazione che i territori effettivamente occupati dai Russi – dal Donbass alla Crimea – sembrano irrecuperabili, si sta affermando tra gli analisti, l’opinione dell’inevitabilità di un fine-conflitto, sulla linea dei successi/perdite sul campo. Conclusione abituale con pace o congelamento, una volta tramontata la speranza di perdite territoriali più contenute.

Probabilmente nessuno ha mai veramente creduto in una “pace giusta” cioè al ritiro delle truppe russe di occupazione e alla firma di un trattato di non aggressione. Tuttavia forse nessuno aveva compreso la gravità di una sconfitta della resistenza. Quando scomparsa la difesa ucraina, in prima fila rimangono i membri dell’UE, sempre parchi con le spese per la difesa, lasciata in larga parte ad una Nato, comunque diretta dalla potenza lontana degli Stati Uniti.

Tuttavia nel vicino Occidente, il timore di provocare una guerra totale ha frenato l’impulso alla solidarietà proattiva. L’assistenza dall’Europa è stata spesso tardiva e nel complesso insufficiente, condizionata anche dal timore di un uso eventualmente troppo spregiudicato degli armamenti ottenuti, e dalla tentazione dell’esercito ucraino di sconfinare sempre più profondamente in territorio russo. Un motivo per il Cremlino di rivendicare il superamento della linea rossa e quindi scatenare la guerra atomica.

Una previsione forse esatta ma scarsamente illuminata se si voleva tenere l’Ucraina fuori dal pericolo della sconfitta e proteggere l’Europa vicina.

Di questo timore sono stati i porta bandiera sicuramente i Tedeschi che hanno veramente centellinato l’invio di materiale bellico, dopo la ridicola consegna iniziale di elmetti protettivi.

Ma il colpo basso è venuto ultimamente con il ritardo di forniture per 61 miliardi di dollari, destinati all’Ucraina, presentati in un provvedimento unitario con aiuti ad Israele ed altri, che il Congresso americano ha parzialmente bloccato.

Il tentativo da parte dell’Amministrazione americana di far passare la misura in un atto unico, palesava la difficoltà prevista per l’approvazione della parte ucraina, che non ha uno sponsor abbastanza forte, mentre l’altra (armi ad Israele) non è mai stata in dubbio, malgrado la differenza di vedute tra il Governo americano e quello di Netanyahu, sempre più profonda.

La cesura è intervenuta per volontà della parte estrema dei repubblicani, sodali di Trump e contrari ad un possibile successo del democratico Biden.

Non c’è motivo infatti di credere ad intendimenti oggettivamente diversificati tra democratici e repubblicani nei confronti della Russia, giudicata visceralmente negli USA un Paese nemico da cui bisogna attendersi il peggio. Dunque lo scacco alle politiche del Presidente democratico sono frutto del contesto elettorale.

L’America è divisa da una contesa tra due schieramenti, uno dei quali, sottovaluta il ruolo mondiale degli USA e l’importanza di difendere principi e valori comuni, riducendo tutto alla battaglia per la vittoria domestica del proprio leader, comunque qualificato. Assolutamente indifferente, come Trump, alle conseguenze sul teatro esterno.

Salta agli occhi l’indebolimento conseguente dell’attrattività mondiale degli US che non riescono a disciplinare nemmeno i propri protetti, primo Israele. Netanyahu forse incurante delle conseguenze dell’escalation che sta accelerando in Medio oriente, provoca Paesi ancora non apertamente belligeranti ed è forse intenzionato a generare una catena di rivendicazioni che trascinino loro malgrado gli Americani ed altri, insieme, nel marasma di multipli scontri, con esiti imprevedibili. In quest’ottica la confusione sulle responsabilità globali, permetterebbe alla fine a Tel Aviv, di sfuggire alla resa dei conti e superare le accuse di strage di stato, sollevate da più parti circa la condotta delle operazioni su Gaza e in Cisgiordania.

Questo scenario, accompagnato dall’espresso disimpegno americano enunciato dal candidato Trump nei confronti di Paesi europei inadempienti (per insufficienti contributi alla NATO e assenza di un riarmo convincente) congiura a confermare un senso di pericolo ad occidente per un’Europa ferma e senza ruolo e un’America dilaniata da contrapposizioni interne.

Forse tante guerre combattute all’estero e spesso perdute sul campo, hanno intaccato la fede degli Americani nel proprio valore e usurato la loro fiducia nel successo finale, causando una depressione molto presente nella società americana. Ma l’Europa per il suo grigiore può solo condannare se stessa e l’incapacità di integrarsi ulteriormente, superando gli ostacoli nazionalisti (in molteplici settori, e nel confronto “frugali/spendaccioni”) che tutti conoscono e che nessuno è stato finora capace di affrontare con sufficiente vigore.

Della vischiosità e aberrazione del potere di Putin e del suo entourage si è parlato a sufficienza, quello che non si discute abbastanza è la situazione abnorme degli Stati Uniti, dove, nelle elezioni di novembre, si confronteranno ancora una volta uno squilibrato tycoon e un maturo leader avanti negli anni. Due persone che normalmente dovrebbero avvicinarsi alla pensione.

Nel Paese l’ascensore sociale non è bloccato, tuttavia la società è incapace di offrire alla politica e all’amministrazione una panoplia di candidati più giovani e preparati.

È stato spesso così con la cultura protestante sempre più incline a favorire il richiamo del successo finanziario piuttosto che l’impegno sociale. Ciò non ostante sono emersi di tanto in tanto leader sia politici che economici compatibili con lo spessore del Paese. Recentemente invece ha prevalso un orientamento particolarmente avverso ad occuparsi della cosa pubblica. Dalle università americane i migliori vengono attratti dal campo imprenditoriale ed emigrano verso una sponda, mentre gli altri affascinati dagli avanzamenti tecnologici, migrano verso l’altra. Non ci sono più ricambi nelle file dei partiti, o meglio non ci sono più giovani di talento e preparazione che si sostituiscano ai vetusti attuali praticanti

Ora si è raggiunto il massimo di allontanamento dal servizio dello stato. E di questi tempi non è un quadro confortante, tanto più che l’esame di ciò che al presente ci offre la Cina, malgrado i suoi giovani imprenditori, è un sistema politico anchilosato su una linea di confronto non più flessibile.

Pechino, cui stiamo tutti guardando come un possibile guardiano della Russia e controllore di eccessi imperialisti, non condivide l’aspirazione ai valori occidentali, da essa lucidamente criticati per i doppi standard che li inficiano e che quindi non prende in considerazione. Oggettivamente vede una Russia che tutto sommato, se la è cavata, che ha potuto sovvertire tutti i canoni di comportamento imposti nello stato di diritto, senza che si riuscisse a ledere seriamente il suo status. Una Potenza che ancora non ha perduto il suo potere di attrazione nel mondo, vedi l’ultimo allargamento dei BRICS, nonché il non allineamento del grande Sud alla battaglia dell’Ucraina. Né le sanzioni hanno prodotto una riduzione del livello di vita domestico, mai troppo elevato, e non comparabile a quello dell’Occidente; tanto più che la perdita dei profitti energetici, forniti dall’Europa, è stata immediatamente sostituita dai proventi da altri acquirenti.

Dunque la Cina malgrado la sua emersione dal gruppo dei PVS, ai quali ancora apparteneva negli anni ottanta, quando era portatrice di rivendicazioni comuni di autonomia e integrità territoriale, guarda freddamente allo svilupparsi delle vicende russo-ucraine che in qualche modo proiettano un futuro di simile confronto con l’Occidente quando sarà il caso di Taiwan. Quindi non ha intenzione di frapporsi a favore di una pace rispettosa della libertà ucraina, non solo per l’alleanza di comodo che coltiva con Mosca, ma perché giudica il momento inopportuno per i suoi obiettivi globali. Attende piuttosto che le condizioni generali le facilitino la riunificazione, forse anche senza iniziative direttamente militari. Le sue ambigue dichiarazioni a favore dell’integrità territoriale, si riferiscono allo stesso tempo sia all’Ucraina che alla Russia a seconda del punto di osservazione. Prima dell’implosione dell’URSS, i territori della nazione russo/ucraina erano uniti nell’Unione sovietica. Dunque non c’è fallo nella rivendicazione russa di una parte del territorio ucraino. Dopo la frammentazione, il referendum del 1991 in Ucraina, aveva sigillato – per gli abitanti – l’appartenenza di Donbass e Crimea, all’Ucraina. Questo per Pechino invece, è solo l’assunto dell’Occidente. Dunque “l’integrità territoriale” è solo una scelta politica.

Tanto più che Pechino intende servirsi dello stesso principio per incamerare a suo tempo Taiwan, magari senza ricorrere a strumenti militari perché sorretta da appartenenza territoriale precedente e comune etnia dominante. Ma anche qui: come per la rivendicazione russa, la supposta sicurezza nazionale, passa per il controllo sull’Ucraina, così il possesso di Taiwan, rappresenta una questione di sicurezza, per la difesa marittima della Cina.

La sorte dell’Ucraina dunque non emoziona Pechino. Non giudica uno schieramento più legittimo dell’altro. Non crede nella pace giusta, ma – insieme alla Russia – guarda allo stravolgimento delle regole internazionali, troppo fotocopia di intese e principi occidentali. Il suo dilemma vero è come sovvertire quell’ordine che le ha permesso di assurgere a grande Potenza, senza destabilizzare i mercati e rimanerne favorita.

Per questo dimostra molta più attenzione al versante bellico mediorientale e al pericolo dell’allargamento del conflitto Israele/Hamas che già con l’interferenza degli Houthi, danneggia la circolazione di cargo commerciali nel Mar Rosso.

Scartato un possibile aiuto della Cina nella risoluzione di uno dei due conflitti, rimane in parte all’Europa di contribuire diplomaticamente alla conclusione di entrambi. L’Europa però è debole e in ritardo; non ha profittato del lungo periodo di pace per affrontare ciò che divide i membri, per diventare una potenza politica. E ancora adesso teme l’instaurazione di una Commissione forte che costringa a serrare le fila, rinunciando ai deleteri “distinguo”. Vedi i dubbi su di un possibile successore della von der Leyen.

La sua lunga cecità è inscusabile perché è ora l’Europa, ad essere schiacciata tra due fuochi: a est e a sud. Un doppio incendio e un grave rischio per la pace globale, e nessuno dei contendenti pronto a spegnerlo.

Con Israele potrebbe essere più semplice un intervento deciso degli Americani a frenarne il colpevole egocentrismo. Ma anche qui le complesse esigenze delle vicine elezioni presidenziali, e non solo, sono un freno notevole all’ azione dell’Amministrazione americana.

Per l’Ucraina, lasciata per qualche tempo dal Congresso, nelle deboli mani di un’Europa impreparata militarmente, si tratta di arrivare ad un tavolo negoziale prima che sia troppo tardi per la stessa esistenza del Paese e il rischio incombente per l’Europa di condividerne in successione la pericolosa frontiera esterna ad est, dopo la sua promessa adesione all’UE.

Giusto dunque che gli analisti stiano elaborando ipotesi su come uscire dall’impasse, ma irrealistico fermarsi allo stato pre-conflitto. Forzare la mano a Putin facendogli intravedere una pace “ingiusta” per l’Ucraina con perdita di una gran fetta del suo territorio, non può prescindere dalla contemporanea protezione del Paese residuo. Continuare ad ipotizzare neutralità garantita per l’Ucraina, è un’ipocrisia confermata da fatti passati e presenti. Sarebbe ugualmente una beffa l’ipotesi Macron, di inviare contingenti militari occidentali in Ucraina. Servirebbe solo a prolungare il conflitto, non a concluderlo.

Per questo nella strategia di sicurezza offerta alla Russia sarà necessario trovare altra merce di scambio, fuori dall’Europa, tanto più che non sembra si possa confidare nella affidabilità dei suoi impegni, già denunciati con scuse – vedi protocollo di Budapest – e più volte traditi apertamente.

È tempo di riconoscere che la sicurezza per l’Ucraina, conquistata con il sangue di soldati e civili, è soltanto l’accesso indifferibile alla NATO. Malgrado Putin lo denunci, il cerchio di Paesi NATO che lo circonda e di cui si sente prigioniero, sembra l’unico scudo efficace, contro di lui. Solo i membri dell’Alleanza atlantica godono di relativa tranquillità, fuori dall’orbita della Russia. Almeno fino ad oggi.

Nel futuro, travolto dal delirio di potenza/impotenza – potrebbe decidere di scatenare l’apocalisse. Succede ai Dittatori alle strette. Ma allora ci saremmo dentro tutti e prima di tutto la Federazione russa.

Jolanda Brunetti

 

 

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