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Approvata la legge di attuazione dell’art. 116, terzo comma, Cost. sul regionalismo differenziato: quali rischi?

di - 15 Luglio 2024
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  1. Con la legge 26 giugno 2024, n. 86 il Parlamento ha approvato le “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’art. 116, terzo comma, Cost.”.

Si tratta del primo intervento legislativo con cui vengono disciplinati gli aspetti di principio e i profili procedimentali relativi alla c.d. autonomia differenziata, che consiste nella possibilità di devolvere alle Regioni a statuto ordinario “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, concernenti in particolare le materie ricadenti nell’ambito della competenza legislativa concorrente di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. e alcune specifiche materie afferenti alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (in particolare, l’ordinamento civile, “limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace”, le norme generali sull’istruzione e la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali).

La previsione che ha introdotto nel corpo della Costituzione repubblicana tale facoltà, l’art. 116, terzo comma, costituisce uno degli aspetti più controversi della riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione approvata nel 2001. Essa, infatti, ricalcando le soluzioni accolte in altre esperienze straniere (in primis quella spagnola), inseriva nel cuore della disciplina dell’autonomia regionale uno strumento che, più di altri, accentuava nel sistema i tratti di un equilibrio semi-federale, aggravato dall’assenza – in quella riforma e ancora oggi – di sedi istituzionali e strumenti per l’adeguata salvaguardia delle istanze unitarie.

Bisogna dire, da un lato, che la differenziazione non è, di per sé, una locuzione che si pone in contrasto col perseguimento dei valori dell’autonomia, se è vero che, pur assente nel corpo dell’art. 116 Cost., ad essa si richiama una delle norme cardine del nuovo Titolo V, vale a dire l’art. 118 Cost. che proprio nella differenziazione, oltre che nella sussidiarietà e nell’adeguatezza, individua i criteri che sovrintendono alla distribuzione delle funzioni amministrative tra i diversi livelli di governo.

Al tempo stesso, dall’altro lato, immaginare che la differenziazione potesse avvenire con forme e strumenti compatibili con un ideale “alto” di autonomismo (quale quello ricavabile dall’art. 5 Cost.) richiedeva qualcosa di più dell’intenzione, che pure guidò al tempo qualcuno tra i proponenti, di “specializzare” le Regioni a statuto ordinario, vale a dire di attribuire ad esse margini di autonomia (soprattutto fiscali e di entrata) comparabili a quelle di cui godono le autonomie speciali, anch’essi regolati sulla base di un modello pattizio affidato però a una legge costituzionale (modello non casualmente regolato proprio dall’art. 116 Cost.).

 

  1. Rimasta per lungo tempo quiescente, la previsione dell’art. 116, terzo comma, Cost. è stata rilanciata nel dibattito pubblico e istituzionale dopo che, nel 2017, in alcune Regioni del Nord (Lombardia e Veneto) si sono tenuti dei referendum consultivi volti a sostenere politicamente l’avvio delle trattative con il Governo centrale al fine di negoziare le ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia ivi previste, cui sono seguite delle pre-intese con i governi che si sono succeduti negli anni, cui si è unita in un secondo momento anche la Regione Emilia-Romagna.

Quello che i primi commentatori subito osservarono, tuttavia, è che la devoluzione di competenze legislative, amministrative e finanziarie richiedeva la fissazione di alcuni principi sostanziali e procedurali che la norma costituzionale non disciplinava nel dettaglio, limitandosi essa a prevedere che l’attribuzione alle Regioni dovesse avvenire con “legge dello Stato” su iniziativa della Regione, sentiti gli enti locali, nel rispetto dell’art. 119 Cost. Il richiamo a tale ultima previsione costituisce l’unico riferimento esplicito all’esigenza che l’introduzione di forme di autonomia differenziata non alteri i compiti inderogabili dello Stato di assicurare strumenti di perequazione “per i territori con minore capacità fiscale per abitante” (art. 119, terzo comma, Cost.) e di destinare risorse aggiuntive in favore delle autonomie locali “per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona” (art. 119, quinto comma, Cost.).

Al di là del richiamo esplicito all’art. 119 Cost., tuttavia, l’introduzione dell’autonomia differenziata richiede comunque il rispetto di quei principi fondamentali della Costituzione in cui si traduce l’esigenza che il perseguimento del principio autonomistico (art. 5 Cost.) non vada a discapito dell’uguale godimento dei diritti fondamentali (art. 3 Cost., v. Tubertini). Da qui, pertanto, la necessità che l’effettivo trasferimento di compiti e funzioni alle Regioni sia preceduto dalla fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni riguardanti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, in relazione alle materie potenzialmente trasferibili alle Regioni ordinarie a seguito della stipulazione dell’intesa. La delega al Governo alla fissazione dei LEP è oggi contenuta nell’art. 1, commi da 791 a 810-bis, della legge n. 197 del 2022.

L’altro aspetto che l’art. 116, terzo comma, Cost. lascia colpevolmente privo di disciplina riguarda, invece, le modalità di approvazione della legge statale che fa propri i contenuti dell’intesa con la Regione che, di volta in volta, richiede di beneficiare del trasferimento di funzioni. In particolare, il maggiore interrogativo riguarda l’eventualità che il Parlamento possa, e in caso affermativo fino a che punto, entrare nel merito dell’intesa stipulata dalla Regione interessata con il Governo, o se invece non possa far altro che recepire o rifiutare in blocco l’intesa così stipulata dal Governo a seguito della negoziazione con le Regioni, secondo lo schema che ricalca, a grandi linee, le intese con le confessioni religiose diverse da quella cattolica di cui all’art. 8, terzo comma, Cost.

 

  1. La scelta dell’attuale Governo e del suo Ministro per gli affari regionali e le autonomie (che della legge è stato il proponente e l’indubbio sponsor politico) è stata, quindi, quella di adottare una legge-quadro, di per sé non richiesta dall’art. 116, terzo comma, Cost. (ma neanche esclusa), che disciplina gli aspetti procedimentali per dare corso all’autonomia differenziata e fissa i principi relativi al conferimento delle funzioni e all’attribuzione delle risorse necessarie al loro esercizio.

Alcuni aspetti di tale disciplina meritano di essere evidenziati per comprendere lo spirito che sorregge l’impianto della legge n. 86 del 2024.

Quanto al procedimento di approvazione della legge statale che trasferisce le funzioni richieste, l’elemento maggiormente significativo è costituito dal peso assolutamente preponderante che viene attribuito – lungo tutto il corso della procedura, dalla negoziazione con la Regione alla fase propriamente parlamentare – al Governo. È quest’ultimo, infatti, che raccoglie l’atto di iniziativa adottato dalla Regione in conformità alle proprie regole statutarie e avvia il negoziato con la Regione, dopo aver informato le Camere e la Conferenza unificata (art. 2, comma 1). È al Presidente del Consiglio dei ministri che spetta la facoltà di “limitare l’oggetto del negoziato ad alcune materie o ambiti di materie individuati dalla Regione nell’atto di iniziativa” (art. 2, comma 2), anche per effetto della valutazione che questi (o il suo Ministro per gli affari regionali) operano sul quadro finanziario della Regione. Lo schema di intesa così adottato dal Consiglio dei ministri è trasmesso per il parere alla Conferenza unificata e alle Camere per l’esame dei competenti organi parlamentari, che si esprimono con atti di indirizzo (art. 2, comma 4), aventi evidentemente rilievo unicamente dal punto di vista della responsabilità politica del Governo nei confronti del Parlamento. Laddove, infatti, il Presidente del Consiglio decida di non attenersi ai predetti atti di indirizzo, è tenuto unicamente a fornire “adeguata motivazione della scelta effettuata” (art. 2, comma 5). Lo schema definitivo di intesa così formatosi, una volta ratificato anche dalla Regione interessata, è dapprima adottato dal Consiglio dei ministri e, successivamente, riversato in un disegno di legge di approvazione dell’intesa, ad esso allegato (art. 2, comma 6) e trasmesso alle Camere, per l’approvazione con maggioranza assoluta ai sensi dell’art. 116, terzo comma, Cost.

Viene innanzi tutto da chiedersi, limitando per ora gli interrogativi alla sola disciplina procedurale, se essa si presti davvero a perseguire l’obiettivo per cui è stata adottata, cioè dare attuazione all’art. 116, terzo comma, Cost., e se gli strumenti che essa prefigura per la disciplina delle modalità di adozione della legge ivi prevista non si pongano in contrasto con altre regole e principi costituzionali.

Quanto al primo aspetto, si può dubitare del fatto che alla legge quadro sull’autonomia differenziata possa essere attribuito il valore di un atto che fissa le condizioni che devono essere necessariamente rispettate per la stipula delle intese e la loro ratifica con legge. L’art. 116, terzo comma, Cost., infatti, nulla prevede al riguardo, così che nulla esclude che le regole in essa oggi contenute possano essere, un domani, liberamente derogate da un’altra legge, quanto meno in relazione agli aspetti relativi ai contenuti e al meccanismo di formazione della legge parlamentare che fa proprie le intese. Né si può ritenere che la legge n. 86 del 2024 possa costituire a tutti gli effetti il parametro in grado di vincolare l’esercizio dei poteri del Parlamento, considerato che, laddove ciò è avvenuto, non solo è la Costituzione stessa a prefigurare un tale vincolo, ma lo circonda anche di soglie di maggioranza più elevate (come nel caso dell’art. 81, sesto comma, Cost., in relazione alla legge rinforzata che detta il contenuto della legge di bilancio e i criteri per assicurare l’equilibrio tra entrate e spese).

Quanto al secondo aspetto, viene da chiedersi se sia compatibile con il quadro attuale dei rapporti tra Parlamento e Governo che scelte fondamentali, attinenti al carattere unitario della Repubblica per come si riverberano anche sulla titolarità delle competenze legislative in capo alle Camere (art. 70 Cost.), possano vedere queste ultime sostanzialmente estromesse dal processo decisionale, chiamate unicamente ad approvare o a respingere in blocco l’intesa raggiunta dal Governo con la Regione, senza alcuna possibilità che, nel corso dei lavori parlamentari, vengano proposte modifiche al contenuto delle intese al fine di salvaguardare le proprie attribuzioni.

 

  1. Il cuore della disciplina contenuta nella legge è, tuttavia, quella riguardante la procedura per l’adozione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) e il valore da attribuire ad essi quale vincolo, di metodo e di contenuto, cui sono sottoposte le intese con le Regioni.

Il punto nevralgico di tale disciplina, che qui non può essere evidentemente analizzato nel dettaglio, pare essere quello relativo alla diretta conseguenzialità tra l’attività di fissazione dei LEP e la previsione degli adeguati stanziamenti finanziari in grado di consentire l’effettivo soddisfacimento della soglia di garanzia in essi indicata. L’art. 3, comma 7, della legge n. 86 del 2024 stabilisce infatti la necessità che i decreti di fissazione o di aggiornamento dei LEP siano adottati solo contestualmente o successivamente ai provvedimenti di stanziamento delle risorse, come anche (art. 4) il trasferimento delle funzioni alle Regioni con cui è stata siglata l’intesa è condizionato dalla necessità che ciò avvenga “nei limiti delle risorse disponibili di bilancio”, fermo restando che ove dalla fissazione dei LEP derivino nuovi oneri (il che, per inciso, pare pressoché inevitabile) “si può procedere al trasferimento delle funzioni solo successivamente all’entrata in vigore dei provvedimenti legislativi di stanziamento delle risorse finanziarie volte ad assicurare i medesimi livelli essenziali delle prestazioni sull’intero territorio nazionale”. È di tutta evidenza che un simile nesso di necessaria implicazione tra LEP e individuazione delle risorse, che opera sia al momento della individuazione dei primi che al momento di trasferimento delle funzioni alle singole Regioni differenziate ma con effetti che valgono anche per tutte le altre, rischia di essere l’autentico capo delle tempeste di tutta la disciplina, tenuto conto non solo della complessità di tale attività di individuazione, ma anche della notevole mole di risorse che dal bilancio dello Stato dovranno essere impegnate e trasferite in vista del soddisfacimento di questi livelli in vista del concreto esercizio delle relative funzioni.

Si può aggiungere, per completare il quadro, che il trasferimento delle funzioni in ambiti extra-LEP (art. 3, comma 3) è operato nei limiti delle risorse previste a legislazione vigente (art. 4, comma 2), sicché è verosimile ritenere che sarà rispetto a questi ambiti che le Regioni che sigleranno le intese attingeranno ai c.d. residui fiscali, la cui individuazione e quantificazione (per il tramite della compartecipazione al gettito di uno o più tributi erariali) non è tuttavia disciplinata dalla legge n. 86. La determinazione dei criteri con i quali avverrà l’individuazione dei beni e delle risorse finanziarie da trasferire alle Regioni è infatti demandata a un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, adottato su proposta di una Commissione paritetica Stato-Regione-autonomie locali, i cui contenuti verranno sostanzialmente riversati nelle singole intese.

 

  1. In conclusione, seguendo una linea di giudizio che potrebbe essere applicata anche ad altri interventi di riforma avviati dall’attuale Governo, l’impressione suscitata dalla legge di attuazione dell’art. 116, comma terzo, Cost. oscilla tra la sensazione di un serio rischio per la preservazione dell’unità nazionale come cornice necessaria per la salvaguardia del principio di uguaglianza e la consapevolezza che quello posto in essere con la legge n. 86 del 2024 sia un meccanismo talmente complesso e irto di ostacoli che difficilmente potrà essere tradotto effettivamente in opera, se non al costo di una grave confusione istituzionale.

È sicuramente impossibile nascondersi che, nell’attuale fase storica (italiana e non solo), molteplici sono le ragioni che rendono fortemente sconsigliabile, se non proprio pericoloso, il ricorso a una differenziazione territoriale quale quella fatta propria dalla legge n. 86.

Viene da pensare, in primo luogo, ai rischi derivanti dal puntare su una simile strategia istituzionale dopo che l’attuazione del Titolo V ha dimostrato, tanto più negli ultimi anni a seguito della crisi pandemica, le oggettive e inequivocabili ragioni di fallimento dell’investimento autonomistico effettuato nel 2001: sia perché non si è realizzata nei fatti l’idea di una Regione come “ente legislatore”, sia perché non ha mai davvero attecchito l’idea di un’effettiva sussidiarietà delle funzioni amministrative (essendo pressoché integralmente mancate le leggi di trasferimento delle funzioni previste dall’art. 118 Cost.), sia, da ultimo, perché ancora più vistoso è il fallimento dell’autonomia finanziaria, essendo rimasto l’art. 119 Cost. poco più che lettera morta.

Impossibile, poi, in secondo luogo, non cogliere le preoccupanti implicazioni che derivano dall’accoppiata tra questo intervento riformatore e quello che parallelamente (ma sarebbe più corretto dire: inscindibilmente) accompagna la riforma costituzionale del premierato. Rimandando a quanto si è detto sopra sullo svilimento delle funzioni del Parlamento come sede della rappresentanza, appunto, nazionale, non può che essere vista con preoccupazione l’idea che il Governo possa, privato ormai anche degli strumenti della responsabilità politica, gestire sostanzialmente in piena autonomia tutto il complesso e decisivo processo che porta al trasferimento di funzioni di grande rilievo sociale ed economico; funzioni, direi quasi, decisive perché una comunità nazionale continui a definirsi e a percepirsi come tale (penso, in primo luogo, alla scuola e alla sanità).

Al tempo stesso – e tenuto fermo quanto si è detto ora –, il giudizio da dare della riforma non esclude neanche, come si anticipava, la percezione di un’estrema difficoltà nel portarla realmente a termine, se non pagando il costo di una confusione istituzionale in cui verosimilmente spetterà, ancora una volta, alla Corte costituzionale rimettere insieme i cocci.

Basta leggere l’art. 7 della legge per avere consapevolezza, ad esempio, che le intese raggiunte hanno una durata prestabilita massima (dieci anni); che possono essere modificate in corso d’opera; che possono cessare – in corso di svolgimento – di comune accordo ovvero a seguito dell’adozione di una legge statale (adottata a maggioranza assoluta) che ravvisi la ricorrenza di “motivate ragioni a tutela della coesione e della solidarietà sociale, conseguenti alla mancata osservanza […] dell’obbligo di garantire i LEP”. Mi pare evidente che, in questo modo, ci si esponga (tanto più se in un’ottica di forte alternanza maggioritaria in Parlamento) al rischio di continui cambi di regime, in cui i processi di trasferimento di funzioni, risorse finanziarie e personale (!) rischiano di restare catturati da un continuo andirivieni tra Stato e singole Regioni.

Un altro segno del rischio di stallo o di confusione istituzionale viene poi dal fatto che ciascuna intesa dovrebbe (art. 7, comma 3) individuare, “in apposito allegato, le disposizioni di legge statale che cessano di avere efficacia, nel territorio regionale, con l’entrata in vigore delle leggi regionali attuative dell’intesa”. Ora, chiunque si sia occupato anche per breve tempo di diritto regionale sa perfettamente che le disposizioni statali di principio (per riferirci solamente alle materie di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., ma il discorso vale a maggior ragione per quelle di competenza esclusiva) non sono e non possono essere individuabili ex ante, costituendo unicamente il frutto dell’attività interpretativa resa ex post dalla Corte costituzionale nei giudizi in via principale. Cosa succede, in altre parole, se una Regione, nell’esercizio della propria competenza “devoluta” viola una normativa statale non ricompresa tra quelle per cui l’intesa consente la deroga?

Anche qui, pertanto, le ragioni di preoccupazione e di diffidenza che si possono avere sono quelle che riguardano l’intero testo: o a tale attività di ricognizione non si perverrà mai (come non vi si pervenne quando analoga iniziativa si tentò con la delega ricognitiva dei principi della legislazione statale di cui all’art. 1, comma 4, della legge La Loggia), oppure tale sarà il livello della confusione e dello scontro politico che verrà persino voglia di rimpiangere il caro, vecchio, regionalismo cooperativo all’italiana.

 

 

Giorgio Repetto


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